Lunedì 23 ottobre, nella curva sud dello Stadio Olimpico romano, dei tifosi laziali hanno sparso immagini di Anna Frank con indosso la maglia della squadra giallorossa. Subito dopo aver appresa la notizia, Federazioni, giornalisti e quant’altro hanno cominciato a spremersi le meningi alla ricerca della soluzione che potesse placare l’indignazione e lo sconcerto generali.
C’è chi ha tentato di minimizzare: in fondo non è certo la prima volta che lo stadio diventa teatro di atti razziali, invece che di sano divertimento sportivo; si tratta semplicemente della ragazzata di quattro deficienti, per cui “the show must go on” nonostante tutto.
C’è invece chi si è definito “affranto e toccato”, e ha pensato quindi di far recitare alcuni versi del diario di Anna prima delle partite, di far indossare la stella ebraica ai giocatori, di portare una corona di fiori alla Sinagoga di Roma, di riempire le pagine dei giornali con Anna che indossa le maglie di tutte le squadre esistenti, e persino di pagare un viaggio d’istruzione ad Auschwitz per duecento studenti.
(La prima pagina di Repubblica del 24 ottobre. Agli eventi del giorno prima si risponde facendo indossare ad Anna tutte le maglie calcistiche, perché in fondo “Siamo tutti Anna Frank”.)
È poi notizia solo di un paio di giorni fa che sono stati presi provvedimenti di Daspo (Divieto di Accedere alle manifestazioni Sportive) nei confronti di 13 tifosi considerati colpevoli di discriminazione razziale. Molti di essi avevano scontato periodi di Daspo già in passato.
Personalmente, questi tentativi risolutori mi hanno offesa quasi quanto l’atto stesso degli ultrà. Chi li ha pensati non ha infatti considerato fino in fondo la meschinità e la gravità del gesto, ma lo ha semplicemente relegato a mero atto di discriminazione razziale, stimando evidentemente più importanti i propri interessi (economici in primis).
In realtà, chi ha voluto far violenza all’immagine di Anna ha fatto molto di più. Ad essere stata colpita, infatti, non è solo una ragazzina ebrea vissuta sessant’anni fa (cosa di per sé già molto grave), ma è l’emblema della memoria. Quando guardiamo Anna, con i suoi occhi vivaci e il suo sguardo semplice e puro, ci ricordiamo (o almeno dovremmo) di tutti gli orrori compiuti dalla crudeltà umana, di come la storia sia stata sì progresso ed evoluzione, ma anche morte, distruzione ed odio cieco. Guardiamo questa ragazzina e ci sentiamo pervasi dal valore della vita; ci rendiamo conto di quanto siamo fortunati a poter vivere liberi.
Possibile che invece Anna sia morta invano, che nessuna di queste persone abbia pensato anche solo un attimo a quello che stava facendo, di quanto meschina e vergognosa fosse la strumentalizzazione dell’immagine di una ragazza, morta di stenti e malattie a soli sedici anni nel campo di Bergen-Belsen?
Qualcuno di loro avrà letto, magari a scuola, quel bellissimo diario scritto da Anna dentro il nascondiglio di Amsterdam, in cui ella passò poco più di due anni, prima di essere catturata dalla Gestapo con tutti i suoi familiari?
(I tempi felici. Anna al centro con il padre Otto e la sorella Margot a destra. Anche lei troverà la morte a Bergen-Belsen nel marzo del 1945, poco prima della liberazione.)
Ancora oggi il nascondiglio si trova dov’era allora, nella Prinsengracht della capitale olandese, ed è divenuto un museo, i cui muri trasudano storia e memoria. Entrare in quelle stanze, poter vedere dove Anna dormiva, dove scriveva il suo diario, dove consumava i pasti con i genitori, la sorella e gli altri inquilini del nascondiglio, mette letteralmente i brividi. Se si è letto il diario di Anna si rivivono le sue parole, e si è presi da un nodo alla gola.
Tutta la famiglia di Anna e i coinquilini (chiamati Van Daan nel suo diario), moriranno nei campi di sterminio. L’unico che farà ritorno ad Amsterdam, dopo la guerra, sarà il padre di Anna, Otto Frank.
(L’esterno e parte degli interni del nascondiglio dove Anna visse dal 6 luglio 1942 al 4 agosto 1944)
(Otto Frank torna nel nascondiglio dopo la guerra e la deportazione.)
Gli autori di quel gesto allo stadio, o quelli che lo hanno definito “la cavolata di quattro deficienti”, hanno visitato quegli spazi angusti e bui, si sono immaginati prigionieri braccati, come lo erano Anna e i suoi, che potevano ricevere pochissime visite, e dovevano stare attenti ad ogni movimento che facevano, per non essere visti e sentiti dall’esterno?
Anna racconta tutto nel diario, alla sua interlocutrice immaginaria, l’amata Kitty. Il quaderno regalatole per il tredicesimo compleanno accoglie le paure, le notizie dal fronte, le difficoltà di una vita condivisa in pochi spazi, i litigi, i compleanni e le feste ebraiche, i primi amori e la speranza per il futuro. Perché nonostante le leggi razziali, le deportazioni e la crudeltà, Anna è incapace di odiare e mantiene viva dentro di sé la speranza di poter uscire e di realizzare un giorno i suoi sogni. È piena di progetti, si è appena affacciata alla vita; dalla piccola soffitta del nascondiglio guarda il cielo e cerca di darsi delle risposte, di capire come mai gli uomini si odino così nel profondo.
Come si fa quindi a scherzare su tutto questo, mettendo addosso ad Anna una maglia di calcio, e collegando la sua immagine a messaggi del tutto ignobili?
Credo che nessuno di quegli ultrà abbia letto il suo diario, e credo anche che non l’abbiamo fatto nemmeno i capi delle Federazioni calcistiche, e i signori che si sono definiti “affranti e toccati”.
Se l’avessero letto, e se le parole profonde e mature di Anna si fossero stampate nel loro animo, si sarebbero comportati diversamente, avrebbero dato a tale gesto un peso maggiore, avrebbero messo al centro della questione Anna, la sua storia e ciò che il suo messaggio rappresenta per noi oggi. Non bastano corone di fiori e minuti di silenzio: bisogna ripartire dall’istruzione e dalla cultura, dal rispetto e dalla sensibilità; bisogna ripartire dal diario di Anna.
Cat.
Titolo: Diario
Autore: Anna Frank
Editore: Einaudi (Collana Super ET)
Pagine: 388
Anno: 2014
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1 pensiero su “RECENSIONE: “Diario” di Anna Frank”