Narrativa straniera

RECENSIONE: “La donna mancina” di Peter Handke

Titolo: La donna mancina
Autore: Peter Handke
Editore: Garzanti (La mia è un’edizione curata da La Repubblica)
Anno: 1979
Pagine: 102
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VOTO: 3/5
4,5stelle
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Peter Handke è stato appena insignito del Premio Nobel per la Letteratura e potevo forse lasciarmi scivolare addosso questa notizia senza legger subito qualcosa di questo autore? Trovo in salotto La donna mancina, tra l’altro non uno dei titoli più sconosciuti, e decido di cominciarlo subito. Data la brevità, l’ho finito in due giorni e quella che troverete di seguito è la mia opinione a caldo. Ultimamente non sono stata molto fortunata con le mie letture.

Lo stringato romanzo dello scrittore austriaco si presenta come una serie di aneddoti, circostanze e dialoghi quotidiani, che assomigliano molto ad una sceneggiatura teatrale. Non sorprende quindi leggere su Wikipedia che Handke abbia avuto qualche pregressa esperienza nel mondo del teatro. I sentimenti non vengono mai descritti in modo chiaro, ma è il lettore che li deve desumere autonomamente dai piccoli gesti compiuti dai personaggi, come un’alzata di spalle o uno sguardo che si perde nel vuoto. Il libro è breve, ma non è sempre comprensibile: tutto è lasciato all’interpretazione di chi legge.

Siamo negli anni ’70; la nostra protagonista è una donna di nome Marianne, che lavora come traduttrice dal francese, ha un marito che detesta, di nome Bruno, e un figlio di otto anni molto intelligente e che ha stento sopporta, di nome Stefano. I tre vivono in un confortevole bungalow, ricreando così la classica situazione borghese di quegl’anni.

La donna è scontenta di tutto, a tratti depressa, a tratti felice, un po’ lunatica e un po’ bipolare. Arriva il giorno in cui di punto in bianco comunica al marito che se ne deve andare da casa ed egli accetta. Da quel momento Marianne si circonda di una spessa corazza di solitudine e straniamento, rifiutando qualsiasi tentativo di riavvicinamento del marito o qualsiasi avance che le provenga da uomini che dicono di adorarla. Si percepisce che non sia ciò che la donna voglia in realtà, ma allora cos’è ciò che vuole? Il suo comportamento è forse un tentativo di ribellione alla gabbia dorata in cui sente di vivere, al ruolo di mogliettina e di madre, che le va stretto? Il lettore non lo capisce e alla fine si stanca di questo universo asettico e glaciale, in cui annaspa in cerca di risposte.

La protagonista ci snerva, compiendo delle azioni di cui poi sembra pentirsi; un esempio per tutti: litiga col marito, lo costringe a convivere con una conoscente che fa la maestra, di nome Franziska, poi lo rincontra per strada e le viene in mente di comprargli un pullover visto in un negozio.

Seppur breve, il romanzo pullula di personaggi, ma le sensazioni che rimangono nell’animo del lettore sono estrema solitudine, desolazione, straniamento. Si avverte netta la percezione che tutto sia avverso: i personaggi sono in tensione tra di loro e l’ambiente, così cittadino e confusionario (a parte una breve parentesi in altitudine), lo è con i personaggi.

Parlando della scrittura, onestamente non l’ho trovata accattivante, né particolare per nessun aspetto. La storia è sicuramente originale, ma poteva essere indagata con più attenzione, dando maggior spessore e realisticità ai personaggi e in particolare alla relazione tra la protagonista Marianne ed il marito Bruno.

Ho letto anche che da questo libro è stato tratto un film con la regia dello stesso autore, ma non so se avrò il coraggio di rintracciarlo e vederlo. Ditemi voi se ne vale la pena.

Rimando quindi il giudizio definitivo su questo scrittore a quando avrò letto qualche altro suo libro. Solo allora potrò tirare le fila e dirvi se veramente è stato un Premio Nobel meritato.

Cat.

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